Francesca Di Castro su “Mamma ricordi” di Claudio Giovanardi

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   CLAUDIO GIOVANARDI, MAMMA RICORDI

Cito da “Mamma ricordi”: “Io mi inseguo come un’ombra stordita insegue un corpo baciato dal sole. Vado a spasso giocando, scavicchiando dal nulla qualche tenero brano della vita che fu.”
Il vortice di pensieri, di emozioni, che la narrazione di Claudio Giovanardi sollecita, fa pesare in chi legge l’incapacità ad esprimere quanto ogni parola scritta, ogni frase evocata, ogni ricordo rivissuto faccia parte della propria memoria, una memoria comune a tutti, ad ogni persona sensibile che conosce ed ha conosciuto il senso ed il valore degli affetti familiari.
Claudio Giovanardi non dà pace, non dà tregua, incalza con un ritmo costante di visioni cangianti, potenti portate allo stremo, iperbole di sogni, lumi improvvisi su un passato dimenticato, abbagli di colore, di volti, di suoni e di voci, lungo un percorso inesausto che riesce a ridare vita ai tanti volti a lui cari.
La dedica e il congedo di “Mamma ricordi”sono identici: “alle ombre, ai miei sogni, ai misteri. A voi tutti che ho amato.”
Non è un romanzo questo. È il diario di una vita, ma più è il diario di un’anima in cui la poesia è il filo di refe che cuce gli attimi che appaiono improvvisi ed imprevedibili da una oscurità che comunque resta il confine del mistero. Ognuno di noi vorrebbe essere uno dei personaggi di questo libro. Ognuno di noi vorrebbe essere stato così tanto amato.
È il dolore di un inevitabile e inaccettabile dissolversi della vita della madre – quella madre sempre pronta a cucire parole d’amore – che impone di riaprire ogni ricordo, di riviverlo e fissarlo nella scrittura; è il dolore che impone il ritmo e la musicalità del verso, che si fa acuta, accesa, galoppante nel momento in cui risponde alla necessità di “fiocinare, bordate di rabbia e d’amore” oppure di “stralogare ai pirati che rubano l’anima”, come indicano i titoli dei due capitoli del libro.
Ma è sempre il dolore che detta ed acquieta il verso in visioni cristalline, azzurrate, vivaci di ricordi lontani e innocenti di un’infanzia serena o di visioni nostalgiche e dolci del padre – che è forse l’acuto mancante che duole nel libro più ancora di quello materno – perché non ha concesso il tempo “per piangere prima e non dopo, il tempo per , come dice l’autore, svellerti al male”.
Il senso del passato e del non detto, di ciò che è sfuggito e non vissuto, porta all’inesausta ricerca di un quadro d’insieme, di una immagine perfetta da rivivere pienamente, nel suo luogo e nella sua stagione.
Allora basta un colore, un frammento, un particolare per ricreare l’insieme di un ricordo, ricostruire il quadro per intero e fondersi con esso alla ricerca di una innocenza che si pensava eterna.
Si va sfogliando l’album dei ricordi insieme all’autore, o meglio, si scopre a poco a poco il contenuto – lungo una vita, una vita intera – di quella valigia dimenticata in soffitta che contiene le cartoline e le foto di famiglia, le cartoline e le storie scavate nell’anima che grazie al ritmo di una poesia virile e turgida trascinano il lettore a scoprirne il valore. Non sono rievocazioni di luoghi, ma graffiti su pietra primordiale; non sono volti che tornano a vivere ma i battiti del cuore di un poeta che afferra l’attimo vissuto nel disperato tentativo di renderlo eterno.
“Ho una fiocina in petto mamma la senti. Dal dolore violento non cavo che qualche violento frammento ove sillabe e frasi cozzano in voli lontani, ghiribizzi che posano infine e sfanno in queste tenere pagine bianche. Questo arpione che plana sicuro nel centro del cuore mi sommerge le idee e consente soltanto che tu affiori a momenti e mi scuoti a mani piagate la memoria che tace e sonnecchia.”
Fiocine in petto per cavar fuori il sangue dei ricordi, per sottrarlo al tempo “che rumina immobile e uguale”, il tempo che “pretende tributi e non fa ricevute”, un tempo che segna tutto il racconto in misure, metri, centimetri.
È tutta una rincorsa al paragone, sontuosamente espresso in attributi preziosi, per rendere meglio l’effetto del tempo che scorre, del ritmo della vita che incalza o che cede, degli spazi fisici che si restringono o si dilatano, dei tempi della musica e della poesia. La capacità di Giovanardi di coinvolgere il lettore è straordinaria. Il metro del ricordo è scandito dal suo personale metronomo, il metronomo del suo cuore. Tutto conduce alla ricerca della misura che tende alla perfezione che va potata, limata, cesellata per cercare il metro perfetto, la forma perfetta essenziale e limpida.
“Mamma – dice ad un certo punto l’autore – questa vita che è un mettere e levare (…) deve renderci endecasillabi perfetti.”
E in questi ruvidi ritagli di sequenze, scarrucola il cestino dei ricordi che la memoria della madre riempie di “zucchero e panna montata, il maglione a sferruzzo con lana mohair, gli spartiti per piano da studiare a ripasso, il quaderno dei conti che non tornano mai. Scarrucolando va questa vita dolciastra e nel lieve percorso tra velare e svelare si sofferma esattamente a metà.”
In questo viaggio a volte delirante e visionario, a volte tagliente ed aspro, a volte nostalgico e clemente, il treno della vita scandisce le distanze coi ricordi e più va avanti e più si volta indietro a riacciuffare il fumo che disperde.
“Nei dettagli viviamo emozioni che battono il tempo, per il resto lasciamo alla vita sensazioni all’ingrosso.”
E nei dettagli Giovanardi è maestro, riesce con poche parole a dipingere un quadro, raccoglie i colori dei pittori che evoca per rendere vivo un azzurro di Tiepolo, un giallo Van Gogh e con pochi tratti sapienti ricuce strappi lontani di giorni vissuti donando al lettore quel senso partecipe di commozione che fa di alcune pagine un distillato d’amore filiale.
Eppure, nonostante il titolo “Mamma ricordi”, la presenza più forte è quella secondo me del padre di cui ricorre più volte nella lettura il ricordo per l’attesa del ritorno a casa e di quel conosciuto fischio familiare che ognuno di noi mantiene nella memoria della proprio giovinezza, come delle voci più care, “quelle voci – dice l’autore – che tagliano dentro e si fissano come fossili impressi allo scoglio del cuore”. Quel fischio ritorna a tratti e ogni volta fa male perché si perde nel vuoto del tempo, di quel tempo che la morte ha sottratto dal conto dei vivi troppo in fretta.
…“Quando i fremiti scuotono e il respiro vacilla, quando perdi la mano che hai stretto per anni, quando gli occhi dell’altro sono lame di ghiaccio che ti ficcano in croce e ti lasciano a cuocere ricordi ormeggiati al passato. E ti mordono al cuore. Mi dicesti volgendo lo sguardo ormai guasto “Tu sei il figlio più bello del mondo”, “ e tu il padre più bello” risposi. Chissà se le ultime gocce di sangue ferme a guardia di un corpo che estingue ti avran fatto sentire le parole più belle che ho detto o soltanto il rumore confuso dell’insulto finale che corre dalle bocche dei vivi alle orecchie dei morti.
Avrei voluto alzarti il bavero,
per proteggerti dal vento
del tuo respiro disperato.
Avrei voluto spegnerti nel cuore
il verso ossessionante
dell’esistere per forza.
Ma ora che è fatta calma sul tuo volto
non mi resta che fissarti
e rispondere agli abbracci
coniugando il verbo vivere.
Ed è proprio la vita con le sue scorribande, le sue pulsioni, le sue follie e i suoi amori, è la vita che si sente palpitare dalle parole di Giovanardi, proprio perché – come lui dice – “quando intorno la morte sdottora – si sa – per chi vive non s’ama mai tanto la vita”.
E la vita è dipinta tra il sonno e la veglia con colori violenti, tramonti rubizzi d’inverno, tramonti spioventi su Santa Francesca Romana, campi verdi di stadio spennellati di bianco e celeste, alberi in manto virile che sperdono muscoli d’ombra a perdita d’occhio, e poi i prati del Colle Oppio o i mille fiori narrati di spighe, mughetti, gerani.
“È la vita che batte non senti? E ci chiama a trascrivere rime, a montare parole, a frugare nei suoni bastardi. Sono un manto armonioso fatto a righe e a quadretti. Non guardare alla piega imperfetta ma raddrizza la sillaba uscita sbilenca.”
Un capolavoro è a volte la descrizione in poche righe di un’epoca e di un vissuto che ci cala negli anni Cinquanta e Sessanta come quando descrive una partita di calcio e dice tra l’altro: “lo stadio era un pezzo di vita sospeso tra il verde del prato e l’azzurro infinito di un cielo guarnito di rondini in fuga. La partita scorreva e gli undici eroi ruminavano metri e aizzavano i cuori a correre in fretta a traguardi inauditi “
Come un capolavoro di costume è anche la pagina dedicata al Sor Giggi, l’antico fornaio, che inizia così: “Sor Giggi, ha detto mamma che segni, che poi passa lei. E il sor Giggi prendeva una carta panunta e con dita panunte segnava un etto di pizza lire dieci.” E così via…
Ma alla fine della lettura ci si rende conto che “Mamma ricordi” è in realtà il diario dell’uomo che cerca se stesso attraverso il proprio passato e attraverso lo sguardo di tutti i suoi cari, un uomo che si riconosce nel proprio alter ego, quel Medius protagonista del suo romanzo mai scritto, semplice, schietto, essenziale uomo del medio evo, mentre l’autore è invece“come la foglia dispersa che vagola ai ritmi delle sue nervature ….o come un bambino che esce e fatica contro corrente, si allontana nel bosco e rincorre le briciole che aveva disperso come un bimbo prudente. Qualche volta – termina Giovanardi – quando il passo è felice e il mio muovermi è snello, faccio prima io a raccoglierle, a sottrarle con brivido audace all’uccello rapace che chiamano… il tempo.”
Biblioteca Vallicelliana, 3 ottobre 2013
Francesca Di Castro

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